
Cia'.
S' I' FOSSE FOCO, ARDEREI 'L MONDO
Le terribili conseguenze dell'ozio, ovvero come la necessità di lavarsi scuota profondamente la coscienza inconscia, gli astanti ringraziano.
Pur avendo oramai provato ogni qualsiasi rimedio, compreso l'obnubilamento da alcool per più giorni ed il coma etilico, non c'è cazzi, dalle ore 11.00 a.m. ca. (orario medio previsto per la sveglia) del 31.12 in poi, iniziando ad annusare l'energia, il principio primo della Gestalt mi si blocca e l'archetipo apocalittico la fa da padrone: c'è da prepararsi il desiderio da esprimere a mezzanotte.
Vado in loop e sono profondamente convinta che solo con un impegno costante ed una ferrea determinazione, ripetendo gli antichi rituali scaramantici previsti per il 31.12, il mattino del 1.01, se tutto va bene, mi dovrei risvegliare in un'altra casa, con un altro arredamento, in un altro luogo, con diversi oggetti sparsi, possibilmente capaci di mettersi in ordine da soli, ed altri simpatici animaletti domestici capaci di portare il caffè a letto. Cosa, tra le tante, che non è mai successa.
Il rituale prevede un'apertura con l'aperitivo pre-pranzo, per protrarsi con varie tappe presso i tutti i soliti ignoti che abbiano la compiacenza di conoscermi et considerarmi, in varie tipologie di assaggi di bevande molto forti, fino al momento dell'espressione del desiderio.
Al momento, dopo aver dipinto perfettamente di fronte a me i peggiori scenari paranoici, come da manuale della migliore semeiotica psichiatrica, ho superato l'impasse emettendo raucedini agonizzanti e sancendo con risolutezza che in ogni caso 'Pulita è meglio'.
Gli astanti, calorosamente, ringraziano, pur convenendo che nell'ozio, anche la sola idea di alzarsi dal divano/letto/poltrona per lavarsi può essere un'esperienza devastante.
Come infrangere le speranze ovvero la bellezza di essere stranieri, che non è sempre facile essere stranieri, anche se qualche volta può essere imbarazzante avere problemi con la lingua, lingua indigena s'intenda.
Il mio amico R. è uno straniero, ma straniero di brutto, fino nel DNA, oggi mi chiama perché sta malissimo, [io scherzosamente lo chiamo baluba (tanto c'è abituato)]:
Baluba - Ciao, io malissimo, tu vai in erboristeria prendere per me propoli con pompino?
Io – Mh... pompino?
Baluba - Sì, erboristeria capisce, io non posso spiegare tanto, mal di gola.
E già mi figuravo vasetti di propoli e per il resto Passi sul retrobottega, in un oscuro e tenebroso roseo magazzino con un Afro-Erborestiere.
Io – Buongiorno. Senta, io volevo i propoli con quella cosa che tu devi maneggiare e poi portarla alla bocca agitandola mentre la punti in gola fintanto che non emette la sostanza?
L'Erborestiere - Ah, lo spray.
Rumorosa caduta di palle ghiacciate (sì è un po' freddino) che rotolano e rotolano prima di infrangersi in mille pezzi (deliziosi, tra l'altro): lo spray.
Data l'ascissa con le seguenti età anagrafiche: 10 anni, 15, 20, 25, 30, 35 ... 80
Livello 1 – Non so cosa sia;
Livello 2 – Trovo molto interessante questa scoperta e ho intenzione di approfondirla;
Livello 3 – Senza indugio, apriamo la n Bottiglia di Vino;
Livello 4 – Non so, ma sono quasi sicuramente propensa per il sì;
Livello 5 – Quale indugio? Passa la canna.
Si evince che dopo un breve periodo (10 anni ca.) iniziale, caratterizzato dall'ignorare il significato dell'aprire dalla Seconda Bottiglia di Vino in poi [da ora in poi n BV], il momento della scoperta della n BV attorno agli anni 15 produce un'immediata e perenne attrazione verso l'oggetto in analisi; l'elemento indugio non appare fintanto che le gambe ed il corpo hanno la forza repentina di reagire ai postumi del giorno dopo, 20 – 25, ma anche 30 anni. Al compimento del 30simo anno di età circa, soprattutto in relazione al mattino successivo lavorativo, il postumo inizia a instillare l'indugio; a 35 anni, l'indugio diventa scherno pseudo-morale. Da 35 a 80 non è pervenuto. A 80 l'indugio scompare totalmente e si aggiunge l'elemento Passa la Canna.
Dialogo ipotetico tra sé (A) e sé (B) nella fase più controversa del Livello 4:
A – Versami un po' di vino, per favore.
B – E' finito.
A – Ci sono altre bottiglie? [N.B. L'uso del plurale]
B – Sì.
A – L'apriamo?
B – ...
A – Ti vedo con qualche indugio.
B – ...?
A – Non lo so, perché dovremmo indugiare?
B – ...?
A – Ci sono motivi, per indugiare?
B – ...?
A – No, mi sembra di no.
B – ...!
A – Apriamo.
Essenzialmente quindi, io una classifica mia non la potrei mai fare, a meno di rubare decisamente un ipotetico fil rouge e farlo mio, tessendolo con la più totale e spregevole arte dell'incostanza che mi contraddistingue: un'incostanza di fondo tale che la mia vita appaia fatta di miliardi di inizii e di miliardi di interruzioni, il cui spazio tra gli uni e le altre discosti di poco dal massimo di una durata di interesse pressoché pari ad un giorno. Ad esempio, non posso fare una classifica dei miei film preferiti, perché nel momento esatto in cui decido di approfondire la mia cinefilia, ho già il martello in mano per approfondire il fai-da-te, con una sorta di fastidio, per di più, verso uno schermo generico che ci preferisce spettatori anziché creatori del mondo. Peccato che poi il martello, venga sostituito da un imminente bisogno di conoscere tutto sulla tribù dell'isola di Pasqua, rimpiazzata subito da un'impellente necessità di coltivare cacti esotici. Il tutto possibilmente senza muovermi di un millimetro dal divano, dal letto o dalla scrivania; insomma il fare di tutto pur di non fare niente.
Essenzialmente pertanto, credo che la mia classifica di fine anno si possa ricondurre solo ed esclusivamente a due cose, unici perni attorno ai quali, con una obbligatoria costanza, vira la mia vita: lavoro su, vita affettiva giù. Il che come classifica è un po' misera e non si discosta molto da quella dell'anno scorso o da quella degli ultimi anni, almeno che io ricordi. Perché in fin dei conti credo anche di avere una memoria di merda: ricordo solo l'essenziale ed a stento quello che ho fatto in questi ultimi giorni (figuriamoci in un anno); argomento, quest'ultimo, che sarebbe comunque ulteriormente misero per stilare una classifica, benché oltre al dormire, mangiare, bere e leggere, per far spessore, volessimo aggiungere i riposi pomeridiani e gli spuntini.
Sono intollerante, di natura. Ci sono delle cose che non ho mai tollerato e questo non mi ha facilitato la digestione di quei bocconi di rabbia, che tutt'oggi continuano a pesarmi qui, sullo stomaco, rendendomi fragile, in quanto a sistema nervoso, e perennemente incazzata, in quanto ad umore.
Tra i tanti colleghi, come foglie caduche, quest'anno c'è il G.: una persona splendida, che vive.
E in questo verbo vive, lasciato lì, come una frase troncata senza un senso, c'è invece tutto e di più del vero senso del vivere.
Il G. è un intollerante genuino, spontaneo, sincero, puro e vero. Il G. apre la bocca e dice tutto quello che ha voglia di dire e tutto quello che pensa; col G. vai sul sicuro, mai ti sparlerà alle spalle, perché tutto che ha da dirti te lo dice in faccia, sereno e beato, nel bene o nel male, e con un'espressione di una ingenuità spiazzante.
Se io fossi come il G., anch'io sarei liberamente intollerante, senza avere più questi macigni sullo stomaco. Ma ho troppe cose ancora da imparare: ho da imparare a discernere la natura del frutto di ciò che non tollero.
Sono molto felice di aver conosciuto Noè, un simpatico ometto il cui spirito potrebbe essere paragonato a quello di un ragazzino, se non fosse per la lunga barba, che porta attorcigliata più volte al collo per una maggiore libertà di movimenti, e quell'incipiente calvizie che pare inizi a minare la sua stupenda chioma sale e pepe.
Noè: - Questo stupido fiume ha finalmente rotto gli argini! Erano anni che prevedevo quest'inondazione e nessuno mi aveva mai creduto, ma adesso avrò la mia bella rivincita!
Mi ha accolto così nella sua arca, battezzata la Gina, ma mai varata per assenza di inondazioni.
Io ero ferma lungo il ciglio della strada, all'altezza dell'argine rotto del fiume, preoccupata per le mie sorti di umile pendolare, bloccata dalla tempesta al ritorno.
Davanti ai miei occhi scorrevano felici le ultime ore della mia vita, come una pellicola dei fratelli Vanzina, per alleggerire l'ansia: eccomi lì, mentre con il manico dell'ombrello, bloccavo la caviglia del mio collega stronzo mentre saliva le scale, facendolo rotolare giù per tre rampe; eccomi sorridente mentre corrompevo l'uomo ricaricatore della macchina per il caffè, facendomi consegnare l'incasso della giornata, promettendogliela e senza mai dargliela; e di nuovo eccomi sorridente a fare la spia al Dirigente sulle inadempienze dei colleghi, al fine di ottenere l'esonero per la riunione del 16 p.v.; oppure raccontare dell'orribile cellulite della collega della 2^B, una cosa inaudita per una collega così giovane, che probabilmente già nascondeva un passato da parrucchiera.
Forse si trattò della mia bontà, ricostruii a posteriori, quell'infinita bontà che celavo nell'animo e tra le due tette che mi consentivano l'accesso agli incarichi a me più graditi senza l'ausilio del push up, ma, mentre già immaginavo il mio corpo inerte trascinato dalle rapide del fiume alla mercè della piena, ecco accostarsi una solitaria arca, ben messa, in legno di quercia dipinto a losanghe, allegre greche e grottesche multicolore.
Nel momento stesso in cui l'arca si fermava di fronte a me, una passerella decorata con nastri argentati e palline natalizie mi si offrì al piede. Dall'alto Noè mi fece cenno di salire e prima di proferir parola, con un gesto divino quasi colombiano, incitò la Gina, carica di promesse e di scoperte.
Noè: – Ed ora va' Gina, va'!
Un samba dolcissimo mi entra nel cuore, mentre nella mia macchina iniziano a sbocciare fiori multicolori, spariscono i vestiti ed il calore mi investe, perizoma a frange sulla pelle dulce de coco e nappe azzurre ai capezzoli, piovono coriandoli e brillantini arcobaleno, un pappagallo verde mi porge un Caipirinha doppio e tutto è musica avvolgente, mentre ancheggiando singhiozza la macchina a ritmo sincopato: freno acceleratore, freno freno, acceleratore, freno, frizione. Mi aggiusto il cesto di frutta in testa e raddrizzo un po' la copùaçu e l'ananasso, scopro nei sedili posteriori due bellissimi percussionisti, marroni come la cioccolata al latte, mentre tocano i loro strumenti.
Sono arrivata a lavoro ubriaca.